di Gianni Lannes

Armi chimiche e mine vaganti disseminate nell’Adriatico dalle armate germaniche nel 1944. Un’eredità scomoda che avvelena e uccide ancora, con cui l’Italia non ha mai fatto i conti. Un segreto tombale di Stati alleati che riversa tutte le sue conseguenze ambientali e sanitarie sull’ignara popolazione locale.
“Me lo ricordo bene: i tedeschi minarono il Mare Adriatico da Fano a Cattolica ma soprattutto a Pesaro, dove fecero saltare in aria il vecchio faro e l’antico loggiato dei pescatori, affondando alcune barche italiane all’imboccatura del porto”: racconta oggi Agostino Ercolessi (campione italiano di atletica leggera e nuotatore leggendario), 102 anni e passa di vita in prima linea. Un uomo di terra e d’acqua, un portolotto pesarese nato in via Doria, con una lucidità mnemonica a dir poco prodigiosa.
Il Sonderkommando Meyer per ordine di Hitler, inabissò nell’estate del 1944 dinanzi a Pesaro e dintorni, anche tutte le armi chimiche nascoste per ordine di Mussolini nelle gallerie ferroviarie di Urbino. L’operazione segreta si protrasse per ben due mesi, come certifica un rapporto ufficiale di origine teutonica. Ben 100 mila ordigni (attestano le ingiallite carte ufficiali della Regia Aeronautica e del distaccamento K specializzato nella guerra chimica e batteriologica) di varia tipologia, caricati con iprite e arsenico (sostanze cancerogene).

Tragedie dimenticate. “Qualche mese dopo la fine della seconda Guerra Mondiale, un trabaccolo carico di vino in damigiane partito da Pesaro e diretto a Rimini, saltò in aria e morirono tutti i membri dell’equipaggio, tra loro i fratelli Floro e Giuseppe Cecchini”: ricorda ora Sandro Rinaldi. C’era e c’è ancora la nebbia?

Il 13 settembre 1946 a poco più di un miglio nautico da Pesaro, al traverso della foce del torrente Genica, esplose durante una battuta di pesca a strascico, il motopesca Franco. Morirono tutti e quattro i pescatori a bordo: Adamo Del Grande, 40 anni (motorista), Giuseppe Perugini, 49 anni (marinaio), Gino Pagnini, 54 anni (capobarca), e Amerigo Balduini – in foto – 62 anni (marinaio). Di loro furono ritrovate solo sparsi frammenti corporei, contenuti in una piccola urna custodita in una tomba comune al cimitero comunale.

Memorie e storie quasi perdute. In proposito, ha scritto nel 2015 con dovizia di riferimenti Amerigo Filippini, sulle pagine di una diffusa rivista locale, edita dalla parrocchia “Madonna del Porto”, a cui è acclusa la presentazione dell’allora comandante della Capitaneria locale, il capitano di fregata Angelo Capuzzimato:
“Il 13 settembre del 1946 avvenne un’altra terribile disgrazia che coinvolse l’intero equipaggio del Motopesca “Franco” sul quale era imbarcato il nonno Amerigo Balduini soprannominato “Peroni”. In una bella giornata di fine estate, mentre alcuni turisti esponevano ancora il loro corpo ai benefici raggi solari lungo la spiaggia, durante una calata di pesca a strascico, la tartana s’impigliò una presura all’incirca un miglio o poco più al largo della costa, nel tratto prospiciente la foce del torrente Genica. La decisione dell’equipaggio fu quella di recuperare la rete, il denaro scarseggiava e tagliare una tartana sarebbe stata una perdita ingente. L’equipaggio si rimboccò le maniche e tentò di salpare la rete per salvare il salvabile. Purtroppo nessuno pensò nemmeno lontanamente di aver a che fare con una serie di mine. Ordigni bellici che in seguito furono descritti di grandi dimensioni, del peso di circa 10 quintali. Depositate in gruppi, lungo la costa, dall’esercito tedesco, costituivano una barriera difensiva contro eventuali sbarchi navali. La tenacia nel recupero, dettata dallo stato di necessità, fu tale che l’ordigno pescato, improvvisamente esplose riducendo in frantumi l’intero peschereccio e tutto l’equipaggio. Tutta la marineria “bandiere a mezz’asta” in segno di lutto (tradizione oggi completamente dimenticata) si mobilitò per i soccorsi. Tutti andarono in mare… ma non vi era più nulla, tutto era scomparso. La sola cosa che fu possibile fare fu calare le reti, di norma portatrici di vita, ma ora setacci per la raccolta delle parti smembrate appartenente agli amici, ai fratelli, ai loro padri ed ai loro figli caduti. Misero fu il risultato della macabra pesca, i poveri resti furono depositati in un’unica bara ed ancora riposano in un’unica tomba. Fu proclamato il lutto cittadino, tuta la città si fermò e partecipò ai funerali in onore dei marinai caduti e delle loro famiglie… L’evento fu immortalato da una fotografia scatta per caso. Sulla foto si osserva una turista sul litorale e sullo sfondo l’enorme colonna d’acqua e fumo che sì innalza verso il cielo. La foto purtroppo non è buona, nell’intento di non arrecare e rinnovare dolore, è stata consegnata a mia madre solo dopo più di 30 anni dall’evento”.
L’8 gennaio dell’anno 1950 l’ennesimo ordigno posizionato in mare dai soldati tedeschi causò l’esplosione del peschereccio Anna di Fano e la morte di ben nove marinai, di cui non ritrovarono neanche le membra, ad eccezione di un corpo maciullato dalla deflagrazione. All’epoca il ministero dell’Interno se la cavò con un indennizzo di 55 mila lire a famiglia.

“Per anni ed anni nelle reti abbiamo preso bombe che ci bruciavano vivi” ricorda adesso il vecchio Otello Barillari. “Ne abbiamo pescate tante e quando le segnalavano alla Guardia Costiera ci fermavano la barca per una settimana” gli fa eco il collega Gianni Boni. Falcidiata anche la marineria di Cattolica e Gabicce che spesso ha denunciato invano i gravi incidenti sul lavoro.

Il 20 novembre 1951 a seguito di un’interrogazione parlamentare dell’onorevole Enzo Capalozza, il governo italiano con la risposta scritta del sottosegretario alla Marina Mercantile Tambroni, ammise la gravissima situazione, ma non attivò alcuna bonifica dei fondali.

Ai giorni nostri, il 25 novembre 2010 (4/07193), un’altra interrogazione parlamentare indirizzata al governo Berlusconi (in cui figurava anche la Meloni) da sei deputati del partito democratico, attende ancora risposta.

Attualmente la ricerca giornalistica negli archivi della Marina Militare a Roma, nonché a Londra, Washington e Berlino, nonché l’indagine subacquea, ha consentito di accertare la presenza di almeno sette discariche belliche a una distanza variabile dalla costa che va da 2,5 a 5 miglia nautiche. Si tratta di un’area che i pescatori locali chiamano “la proibita”, dove non si azzardano più a gettare le reti da decenni.
Nessuna autorità italiana, a tutt’oggi, ha mai chiamato in causa le istituzioni governative della Germania, almeno per far rispettare il principio giuridico internazionale “chi inquina paga”. Lo impone, peraltro anche il Trattato di Parigi (1993) sulla messa al bando delle armi chimiche (ratificata dalla legge italiana numero 496 del 18 novembre 1995). Nel novembre 2024 ho informato Lucas, l’ambasciatore tedesco a Roma (e come ad Ancona vige il nazionale e cameratesco “me ne frego”), ma non ho avuto alcuna risposta. A quando una bonifica marina? C’è un giudice almeno a Berlino per questo crimine contro l’umanità?
Riferimenti:
Gianni Lannes, Italia USA e getta, Arianna editrice, Bologna, 2014.
Gianni Lannes, Bombe a…mare, Nexus edizioni, Battaglia Terme, 2018.
https://shop.nexusedizioni.it/blogs/casa-editrice/bombe-a-mare-immersione-in-un-inferno-nascosto
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1995/11/25/095G0541/sg

Scrivi una risposta a MINE VAGANTI IN ADRIATICO: NAZITEDESCHE! – Gianni Lannes Cancella risposta