


di Gianni Lannes
Tel Aviv ormai possiede un gigantesco arsenale di armi per la distruzione di massa: nucleari, chimiche, biologiche, balistiche. E adesso più che mai, per ingordigia e potere di dominio in Medio Oriente, dopo lo sterminio di oltre 50 mila palestinesi, tra cui 20 mila bambini, bombarda anche l’Iran, dopo il Libano e la Siria, rischiando di innescare una terza e definitiva guerra mondiale.
Nel 1957 Israele (per decisione del premier Ben Gurion) siglò un accordo segreto con la Francia per la costruzione di un reattore nucleare nel deserto del Negev, presso Dimona. Nel 1958, come attestano centinaia di documenti segreti statunitensi, l’intelligence di Washington ne era già al corrente. Ufficialmente il progetto venne spacciato come iniziativa civile per la produzione energetica e la ricerca scientifica. Esso venne sviluppato tra il 1958 ed il 1963.

Tuttavia, la struttura presentava caratteristiche che andavano oltre le necessità civili: un reattore moderato ad acqua pesante (fornita dalla Norvegia) da 26 negawatt e impianti di riprocessamento del plutonio, indicavano finalità belliche. Quando lo spionaggio statunitense scoprì l’impianto attraverso fotografie aeree e terrestri nel 1960, il presente Kennedy mise con le spalle al muro Ben Gurion (che si dimise) e poi Eskol, ma ciò gli costò la vita. E comunque le ispezioni risultarono inadeguate, poiché gli israeliani occultarono le finalità militari. Il velo di segretezza venne squarciato nel 1986 grazie a Mordechai Vanunu.
Il trenta settembre del 1986, alle 18:30 questo tecnico nucleare israeliano, pochi giorni dopo aver rivelato al settimanale inglese «Sunday Times» l’esistenza di una fabbrica israeliana di bombe atomiche a Dimona (Negev), arrivava a Roma proveniente da Londra. Quella stessa sera – su ordine personale dell’allora primo ministro Simon Peres – venne rapito, drogato e, qualche ora dopo, rispedito via mare in Israele.

Al termine di un processo supersegreto Mordechai Vanunu, che aveva lavorato nella centrale atomica di Dimona, ufficialmente un impianto «civile», dal 1976 al 1985, venne condannato a diciotto anni di prigione per «tradimento», «spionaggio» e per aver rivelato «segreti di stato». Per dodici anni Mordechai Vanunu, originario di una famiglia proveniente dal Marocco, ha vissuto in completo isolamento in una piccola cella, con una finestrella in alto su una parete, senza poter incontrare nessun essere umano tranne qualche breve e rarissima visita, separato da una barriera metallica, dei familiari, dell’avvocato e di un sacerdote. Il tecnico israeliano, nonostante abbia già abbondantemente scontato la pena inflitta arbitrariamente costituirebbe ancora una «minaccia» per lo stato Israeliano – come ha sostenuto «la colomba» Shimon Peres padre del programma nucleare bellico di Tel Aviv (realizzato grazie alla Francia prima e agli Usa poi).
Punito con estrema e inflessibile durezza per aver tentato di porre sull’agenda politica la realtà del nucleare israeliano, sempre «dimenticato» dagli Usa e dalla Ue -che puntano a disarmare solamente i paesi arabi e islamici.
Le squadre di killer del Mossad hanno sempre avuto mano libera in Italia, in particolare a Roma, dai tempi dell’uccisione di Wael Zwaiter: la mancanza di qualsiasi procedimento a carico dei presunti responsabili del rapimento costituisce una delle pagine più oscure della nostra giustizia e della nostra magistratura. Mordechai Vanunu, a Londra per consegnare la sua storia al «Sunday Times», venne infatti convinto da un’avvenente bionda agente del Mossad, «Cindy», a seguirla a Roma il 30 settembre di quall’anno. Giunto a Fiumicino Vanunu avrebbe trovato ad attenderlo un presunto amico della sorella di «Cindy» che l’avrebbe portato in un appartamento alla periferia della capitale. Qui, appena entrato, sarebbe stato bloccato, drogato e immobilizzato. Caricato su un furgone, affittato secondo la polizia italiana da un uomo vicino all’ambasciata israeliana di Roma, Vanunu sarebbe stato portato a Pisa e poi a La Spezia e da qui trasportato da una imbarcazione da diporto su di una nave spia israeliana la «Ins Noga», -ufficialmente, secondo il giornalista britannico Peter Hounan, parte della flotta commerciale «Zim-line»- alla fonda in acque internazionali. Alcuni marinai della «Noga» avrebbero rivelato successivamente al quotidiano israeliano «Ha’aretz» di aver fatto in quei giorni uno strano viaggio dall’Italia in Israele con un prigioniero a bordo e tre agenti del Mossad tra i quali una «presuntuosa» e «arrogante» bionda. La ragazza sarebbe stata successivamente rintracciata da un team investigativo del «Sunday Times» a Netanya, in Israele. Si tratterebbe di Cheryl Bentov, ebrea americana originaria di Orlando in Florida, trasferitasi poi in Israele dove avrebbe incontrato e successivamente sposato Ofer Bentov ex maggiore dei servizi segreti militari israeliani. Tutte queste notizie, compreso l’indirizzo di «Cindy», sarebbero state consegnate dal giornalista Peter Hounan alla magistratura italiana che a sua volta aveva già ricevuto un approfondito dossier da parte della polizia e della Digos, ma senza alcun esito. Né «Cindy», né i marinai della nave sarebbero stati chiamati a testimoniare. Le conclusioni del giudice Sica sarebbero state disarmanti: Vanunu avrebbe collaborato al suo rapimento e quindi non vi sarebbe stato alcun reato sul suolo italiano.
Per il tecnico che svelò i segreti del programma nucleare israeliano iniziava 39 anni fa un incubo che sembra non avere fine. Ha scontato 18 anni di carcere duro, ma la sua è una condanna a vita. La vicenda cominciò così, 35 anni fa, con una scritta nel palmo della mano, appoggiata su un finestrino del piccolo bus che lo riportava dall’aula del tribunale al carcere. E terminò 18 anni dopo, il 21 aprile del 2004, quando Vanunu lasciò la prigione di Shikma. L’aver rivelato al mondo i segreti del programma nucleare israeliano, ha significato la condanna a una vita, anche fuori dal penitenziario, libera solo in parte. Ancora oggi è costretto a rispettare restrizioni negli spostamenti, a non incontrare i giornalisti, e ad affrontare procedimenti penali per presunte violazioni dei termini di scarcerazione. Più di tutto non può vivere lontano da Israele, paese di cui sente di non far più parte al punto da rinunciare a parlare in ebraico e a convertirsi al Cristianesimo. Dal 2004 il tecnico nucleare vive a Gerusalemme est, la zona palestinese della città. Fino a qualche tempo fa lo si poteva scorgere nel bel giardino di un piccolo hotel palestinese o in una nota libreria di via Salah Edin a sorseggiare un caffè. Ora è quasi introvabile e comunque per un giornalista straniero intervistarlo vorrebbe dire l’espulsione da Israele. “Non mi pento, rifarei tutto ma i segreti che ho rivelato (nel 1986) sono superati, non rappresento un rischio per la sicurezza del paese come affermano (le autorità)”, ripeteva Vanunu il 21 aprile 2004 davanti alla prigione Shikma. Poi ha capito che non lo lasceranno mai partire. Perché quei segreti, sì, sono superati ma la sua stessa esistenza resta una denuncia perenne di un programma nucleare segreto – che il mondo finge di non conoscere – e del possesso da parte di Israele, lo dicono gli esperti internazionali, di 100 forse 200 testate atomiche.
In realtà la vicenda di Mordechai Vanunu inizia molto prima del suo rapimento a Roma messo in atto dal Mossad israeliano. Ebbe inizio negli anni 70 quando assieme al fratello Meir, iniziò a frequentare gli ambienti della sinistra radicale allontanandosi dal padre, un rabbino, che avrebbe voluto per lui un’esistenza da religioso ortodosso. Assunto come tecnico nella centrale di Dimona, Vanunu si rese conto che lì non si conducevano ricerche a uso civile. Dimona era la realizzazione, con l’aiuto della Francia, del programma nucleare segreto voluto dal fondatore di Israele David Ben Gurion e completato dal futuro Premio Nobel per la pace e presidente Shimon Peres. Non poteva rimanere in silenzio. Con una Pentax scattò 58 foto nel Machon 2, un complesso sotterraneo della centrale dove venivano prodotti annualmente una quarantina di kg di plutonio. Poi, a metà degli anni ’80, decise di dimettersi e di lasciare Israele con uno zaino colmo di segreti. In Australia si confidò con un giornalista, Peter Hounan, che lo convinse ad andare a Londra per raccontare tutto al “Sunday Times” che avrebbe poi pubblicato le sue rivelazioni.
Nell’estate del 1986 il Mossad era già sulle sue tracce e un’avvenente spia del servizio segreto israeliano. Si scelse di rapirlo a Roma e non a Londra, perché Israele sapeva che l’Italia sarebbe rimasta in silenzio di fronte alle operazioni degli agenti del Mossad già intense da anni nel territorio italiano, incluse quelle armate. Valga oer tutti la strage di Ustica: nel 1998 il giudice istruttore Rosario Priore chiese all’allora presidente del consiglio, dei documenti inerenti proprio Israele, ma Romani Prodi oppose il segreto di Stato.
Ed ebbe ragione. Il giornalista Peter Hounan consegnò un fascicolo pieno di notizie alla magistratura italiana che, peraltro, aveva già ricevuto un dossier della Digos, ma senza alcun esito. Le conclusioni del giudice Domenico Sica furono disarmanti: Vanunu, a suo dire, aveva “collaborato” al rapimento e quindi non vi era stato alcun reato sul suolo italiano. Sica era il maggiore esponente della Procura di Roma che a quel tempo era chiamata ironicamente ‘Il porto delle nebbie’, dove tutto veniva affogato e così fu insabbiata anche l’indagine su Vanunu. E non fece effetto la foto della mano che rivelava il rapimento avvenuto a Roma. L’Italia non intervenne. E non è mai intervenuta. Un silenzio totale anche quando il tecnico nucleare, anni fa, rivolse più di un appello al governo italiano affinché fosse riportato a Roma.
Il suo arresto avvenne con l’avallo del secondo governo Craxi e la collaborazione operativa del Sismi in violazione della Civil Covenant and Political Rights, secondo cui “nessuno può essere soggetto ad arresti o a detenzioni arbitrari”, eseguiti in uno Stato straniero da parte di autorità di uno Stato estero.
Argentina, Canada e Gabon hanno fornito ad Israele l’uranio necessario, mentre il regime dell’apartheid di Pretoria, la possibilità di effettuare esperimenti nucleari in Sudafrica. Israele non ha mai sottoscritto il Trattato di non proliferazione nucleare e nel 1980, dopo un un anno di avvertimenti, minacce e attentati, ha provocato la strage di Ustica e poi quella di Bologna, per impedire all’Iraq di dotarsi dell’atomica, grazie al trasferimento di tecnologia nucleare italiana e francese in cambio di petroldollari. Infine, il 7 giugno 1981, sempre l’aviazione di Tel Aviv ha bombardato in Iraq la centrale nucleare costruita dai francesi, nonché i laboratori atomici assemblati dall’Italia (Ansaldo Nucleare, Snia Techint e Cnen).
I governi italiani non hanno mai risposto a ben 7 atti parlamentari di sindacato ispettivo inerenti il rapimento fuorilegge di Vanunu a Roma.
Il 12 marzo 2025, Google ha oscurato il blog Su la testa! anche in relazione alla pubblicazione di materiali inediti e segreti dell’attività nuclare israeliana, dopo 13 anni di giornalismo indipendente in prima linea.
Riferimenti:
Gianni Lannes, Ustica e Bologna. Le due stragi, Edizioni Mondo nuovo, Pescara, 2023.
Gianni Lannes, Israele. Olocausto finale?, Pellegrini editore, Cosenza, 2024.
https://vanunu.com/cgi-sys/suspendedpage.cgi
https://www.peacelink.it/pace/a/4536.html
https://www.peacelink.it/pace/a/4538.html
https://www.peacelink.it/pace/a/4537.html
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