IL TESORO D’ITALIA: ALL’ESTERO!

di Gianni Lannes Il quantitativo totale di oro di proprietà del popolo italiano – come si legge nel sito della banca e nei bilanci – è pari a 2.452 tonnellate, costituito prevalentemente da lingotti (95.493) e per una parte minore da monete. L’Italia, almeno sulla carta, è al 4° posto per le riserve auree al…

di Gianni Lannes

Il quantitativo totale di oro di proprietà del popolo italiano – come si legge nel sito della banca e nei bilanci – è pari a 2.452 tonnellate, costituito prevalentemente da lingotti (95.493) e per una parte minore da monete. L’Italia, almeno sulla carta, è al 4° posto per le riserve auree al mondo, dopo la Federal Reserve statunitense, la Bundesbank tedesca e il Fondo Monetario Internazionale; eppure il 44% è in Italia il 43% è negli Stati Uniti d’America, il 5,76% è nel Regno Unito e il 6,09% in Svizzera. Nei sotterranei della Banca d’Italia si trova una quota – 100 tonnellate – delle riserve conferite alla Banca centrale europea all’alba dell’euro, una frazione simbolica. In sostanza, l’Italia – ridotta a colonia – nel 2025 è ancora priva di sovranità e indipendenza.

Finanziare il debito o la spesa pubblica? Il recente emendamento di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, sulla gestione e la titolarità delle riserve auree della Banca d’Italia, è arrivato all’attenzione di Christine Lagarde. La presidente della Banca centrale europea – interrogata dall’europarlamentare Pasquale Tridico – ha ribadito l’ovvio: la gestione delle riserve auree spetta esclusivamente alla Banca d’Italia. Infatti essa possiede – secondo la Bce – la piena autorità e l’indipendenza nella gestione dell’oro nell’interesse del popolo italiano.

Perché affermare un controllo esplicito dell’esecutivo meloniano su una proprietà pubblica fondamentale: appunto 2.452 tonnellate di oro, per un valore di circa 300 miliardi di euro?

Ma perché ripeterlo se l’oro è già degli italiani? Giuridicamente l’oro appartiene allo Stato italiano, ma non può essere toccato dal governo in carica Meloni.

Nel 2019 l’allora governatore Ignazio Visco sottolineò che “nessuno dei partecipanti al capitale di Banca d’Italia (banche, assicurazioni e casse di previdenza) può vantare diritti sulle riserve auree e valutarie dell’Istituto”.

L’oro è espressamente incluso nella nozione di “attività di riserva in valuta dalla normativa comunitaria che ha disciplinato il trasferimento di attività della specie dalle Banche centrali alla Bce”. Alla fine degli anni ’90 la Banca d’Italia infatti conferì una parte delle riserve alla Bce in occasione dell’avvio dell’Unione economica e monetaria.

Fra le curiosità storiche va ricordato il parziale recupero, nel dopoguerra, delle riserve sottratte dai nazisti-tedeschi nel 1943 (meno dei 2/3 del totale rubato), o quando nel 1976 l’oro fu dato a garanzia di un prestito ricevuto dalla Bundesbank.

Già all’inizio del 1940 Mussolini ortdfina il trasferimento nell’area dell’Aquila. Un complesso industriale in cemento armato, ex conceria militare poi passata alla Snia Viscosa e infine semiabbandonata, viene riconvertito: nasce l’Officina carte valori dell’Aquila. Nel 1943 l’oro non c’è più da spostare: sarà razziato dai tedeschi a partire dal 22 settembre. In mezzo, si consuma il passaggio forse più drammatico di questa storia.

L’8 settembre è l’armistizio, la fuga del re e del governo a Brindisi, il vuoto di potere nella capitale. In pochi giorni Roma passa sotto controllo tedesco; nel Nord affluiscono dieci divisioni della Wehrmacht che presidiano nodi ferroviari e strade. Per i nazisti, appropriarsi dell’oro della Banca d’Italia è una tentazione troppo grande.

A Berlino si apre una vera e propria gara interna per mettere le mani sul tesoro di via Nazionale. Si muovono in quattro: Herbert Kappler, ufficiale delle SS, futuro responsabile della strage delle Fosse Ardeatine; Hermann Göring, capo della Luftwaffe e regista dello sfruttamento economico dei Paesi occupati; Walter Funk, ministro dell’Economia e presidente della Reichsbank; e Rudolf Rahn, ambasciatore del Reich presso la Repubblica sociale italiana.

Nel frattempo, il ministro degli Esteri Ribbentrop punta a ritagliarsi una quota propria: quel «tesoro di Ribbentrop» che più tardi seguirà dirottamenti e nascondigli tutti suoi.

Il mattino del 20 settembre arriva la richiesta ufficiale dell’ambasciata tedesca: l’oro va ceduto. Azzolini insiste sulla necessità di riunire il direttorio della Banca, prende tempo, tratta parola per parola. Il 22 e il 28 settembre 1943 l’oro «ufficiale» lascia Roma: due convogli ferroviari trasferiscono verso Milano circa 119 tonnellate di metallo prezioso. Viene stoccato nella filiale della Banca d’Italia, con i tedeschi a pretendere una delle tre chiavi necessarie per aprire la “sacrestia”.

Qualche mese dopo, su pressione di Göring e con il via libera del ministro delle Finanze della Rsi, Domenico Pellegrini Giampietro, l’oro viene trasferito più a Nord, nel forte di Fortezza, in Alto Adige. È un complesso militare in una valle dell’Isarco, sotto pieno controllo tedesco dopo l’8 settembre. Qui i lingotti vengono sistemati in una caverna, dapprima murata e poi chiusa con una porta corazzata. Formalmente sono ancora di proprietà della Banca d’Italia. Di fatto, sono nelle mani del Reich.

Nel gennaio 1944, Göring torna alla carica. La Germania ha bisogno di oro per pagare fornitori, compensare transazioni, tenere in piedi, per quanto possibile, l’impalcatura finanziaria dello sforzo bellico.

Il 5 febbraio, sulle rive del Garda, nella località di Fasano, viene siglato l’accordo destinato a segnare il destino dell’oro italiano: la Repubblica sociale italiana «mette a disposizione» l’oro della Banca d’Italia per contribuire alle spese di guerra comuni. Dal punto di vista giuridico, è presentato come una decisione sovrana del governo di Salò; nella sostanza, è il sigillo su una consegna imposta.

Da Fortezza parte il primo treno, il 29 febbraio 1944: circa 50 tonnellate dirette alla Reichsbank di Berlino. Una parte – circa 8 tonnellate – viene dirottata subito al Ministero degli Esteri, alimentando il famoso «tesoro di Ribbentrop»; il resto entra nei forzieri centrali della banca tedesca.
Un secondo invio, nell’ottobre dello stesso anno, aggiunge altre 21 tonnellate. In totale, dalle montagne altoatesine al cuore del Reich viaggiano circa 71 tonnellate del nostro oro.

Nel febbraio 1945, quando la guerra è ormai sull’orlo della disfatta tedesca, Berlino decide di spostare le riserve della Reichsbank in un luogo più difficile da raggiungere: una miniera di potassio a Merkers-Röhm, in Turingia. Una cattedrale sotterranea dove finiscono lingotti, casse di banconote, ma anche opere d’arte.

Nell’aprile dello stesso anno, le truppe americane scoprono il deposito. Fanno saltare la porta blindata della galleria, si ritrovano davanti a oltre 200 tonnellate di oro proveniente da mezza Europa. Quel metallo, insieme ad altre partite recuperate dalle nazioni neutrali che avevano negoziato con il Reich, finisce in un unico «calderone»: il Gold Pool, la riserva gestita dalla Commissione tripartita (Stati Uniti, Regno Unito, Francia) con l’obiettivo di restituire almeno in parte l’oro monetario ai Paesi depredati.

L’Italia, inizialmente esclusa in quanto ex Paese dell’Asse, dopo la cobelligeranza iniziata il 13 ottobre 1943 e la firma del Trattato di pace, nel 1947 viene ammessa a presentare le proprie richieste. Da quel momento comincia una lunga trattativa: da una parte la rivendicazione di 71 tonnellate trafugate; dall’altra la logica del riparto proporzionale tra tutti i danneggiati.

Alla fine, tra il 1947 e il 1998, l’Italia riceverà dal Gold Pool poco meno di 47 tonnellate, circa il 66% dell’oro perduto. Il resto si perde nelle compensazioni dovute ad altri Paesi, nelle difficoltà di ricostruire con precisione il percorso di ogni lingotto, nella decisione politica di chiudere un altro armadio nazifascista.

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