
Le vittime italiane e ghanesi del Massimo Garau: Paolo Paleino (comandante), Geo Caselli (direttore di macchina), Matteo Asaro (1° ufficiale di coperta), Girolamo Perez (cuoco), Etsy Kofi (Boscò), Quartey Salomon Kinarte (1° ufficiale di macchina), Atta Kojo (Tomoniere), Ernest Tagbor (ufficiale di coperta), Agba Atomtani (Ingrassatore), Zormeo Kwazi (ingrassatore), Afful Daniel (retiere), Emmanuel Semenya (marinaio), Martey Daniel (marinaio), Edru Sam (marinaio), Anumu Precious (marinaio), Daniel Addison (marinaio), Aklade Koami (marinaio), Kumade Ben (marinaio), Audou Rigenert (marinaio).
di Gianni Lannes
Era solo una barca italiana con 19 uomini che andava a pescare in tempo di pace. E non è andata a fondo per il maltempo, come le autorità italiane hanno voluto far credere, in questo e in tanti altri casi. La storia della scomparsa del peschereccio oceanico Massimo Garau (190 tonnellate di stazza lorda) è stata per lungo tempo avvolta in un fitto mistero come da copione, impastato di menzogne di Stato e insabbiamenti calcolati, fino al recupero ad 83 metri di profondità – disposto finalmente dall’autorità giudiziaria – avvenuto nel luglio dell’anno 1996, da parte della Micoperi con l’ausilio dell’Impresub di Trento.

Solo per fare una comparazione: il peschereccio Rita Evelin di appena 17 tonnellate e 200 chilogrammi di stazza ad 80 metri non è stato recuperato, perché altrimenti avrebbe parlato e rivelato la verità di un affondamento doloso, provocato il 26 ottobre 2006 da un’unità militare. Infatti la motobarca di San Benedetto reca impressi sullo scafo i segni evidenti di una collisione subacquea. Non a caso, le autorità giudiziarie (Procura di Ascoli Piceno e di Fermo, nonché la Direzione Marittima di Ancona unitamente alla Capitaneria Portuale sambenedettese) hanno fatto sparire le numerose videoriprese subacquee (11 giorni di filmati girati complessivamente dal Nucleo Subacquei della Guardia Costiera di San Benedetto, dai Vigili del Fuoco di Ancona e dalla Rana Diving di Marina di Ravenna), eppure oggi le negano ai familiari delle tre vittime (Luigi Luchetti, Ounis Gasmi e Francesco Annibali) aventi pieno diritto. La consegna istituzionale – ordinata da Roma – è immutata: negare l’evidenza a oltranza, anche a sprezzo del ridicolo e del disgusto delle società civile.
Inizialmente non si era sicuri di quello che fosse accaduto alla nave quando se ne persero le tracce, si ipotizzò anche un ammutinamento. Si scoprì in seguito la verità, cioè che il Garau era stato affondato alle 18,27 di lunedì 16 febbraio 1987 a poche miglia dall’isola dei Cani, scogli di terra tunisina sulla rotta per Gibilterra. Il mistero di quella che allora era una nave scomparsa era stato svelato dopo alcuni mesi di indagini: il Massimo Garau era in fondo al mare, a metà strada tra Capo Bon e l’isola di Pantelleria. L’allora capo della Procura della Repubblica di Marsala, Paolo Borsellino, aveva ipotizzato il recupero del relitto per accertare le cause del repentino inabissamento. Nessuno dei 19 componenti dell’equipaggio riuscì a salvarsi. In quindici, morirono annegati, mentre gli altri quattro furono trovati assiderati su una scialuppa.
Il cosiddetto mistero ruota attorno ai 28 minuti che passano dalle 18 circa del 16 febbraio del 1987 alle 18:28 che è l’ora in cui si è fermato l’orologio della sala mensa dell’imbarcazione. L’ultimo contatto radio, infatti, tra la società armatrice del Garau e il peschereccio è avvenuto alle ore 18, poco prima dell’affondamento. Si pensa che proprio in quel momento che riporta l’orologio di bordo, si sia consumata la tragedia.
Alla radio il comandante, Paolo Paleino, così come riportato da dichiarazioni ufficiali dell’armatore agli organi inquirenti, non era particolarmente preoccupato ma solo allarmato per le condizioni del mare che sembrava non potessero migliorare da lì a breve. Qualunque decisione presa dal comandante non poteva che essere condivisa dall’armatore. In mare e in quelle circostanze si trovavano loro, e nessuno meglio di loro avrebbe potuto capire e valutare le reali condizioni atmosferiche e cosa sarebbe stato meglio fare.
Le ultime parole del Comandante – Il contatto alla radio terminò con le parole del comandante che rassicurò l’armatore dicendo che avrebbe preso la decisione di continuare la navigazione e che, se le condizioni fossero peggiorate, avrebbe cercato un immediato riparo, dirigendosi a sud di Capo Bon, oppure avrebbe usato la solita tecnica, quella di mettere la nave alla cappa. Tale tecnica consiste nel mettere la prua a favore delle onde con motore in forza, facendo fare il movimento al peschereccio, in gergo chiamato beccheggio. Il Capitano avrebbe messo in atto questa manovra fin quando il tempo non si sarebbe rimesso o nella peggiore delle ipotesi, avrebbe fatto ritorno a Mazara. Le indagini nella relazione tecnica sulla ricerca, ritrovamento e ispezione del relitto del Garau, dimostrarono che Paolo Paleino, in realtà aveva cambiato rotta.
Il cambio di rotta – Dalla rotta iniziale di 261°, Mazara – Isola dei Cani e il punto in cui fu ritrovato il peschereccio, sembra logico ipotizzare che il Comandante avesse deciso un cambio di rotta, da 261° a 236°, per dirigersi verso Capo Bon. Lo fece per accorciare la distanza con la terra ferma e dirigersi dove avrebbe potuto trovare un ancoraggio sicuro viste le condizioni meteo marine non certo favorevoli.
Nessun S.O.S dal “Massimo Garau” – Quella fu l’ultima comunicazione avvenuta tra la società armatrice e il motopesca. Da quel momento il silenzio cadde sul Garau. Ad oggi in tutta la tragedia del peschereccio mazarese e dei suo marinai risulta incomprensibile il fatto che la nave non abbia lanciato alcun S.O.S. o, forse, terribilmente comprensibile per quello che la società armatrice ha sempre sospettato fosse realmente accaduto. Il naufragio è avvenuto ad una velocità incredibile, al punto che il Comandante o chi era in plancia di guardia in quel momento, non ha avuto il tempo di lanciare la richiesta di soccorso. Lo strumento che consente di lanciare l’S.O.S. si trova a poche decine di centimetri dal timone. Non è pensabile che in una sera di mare agitato non vi fosse nessuna in plancia o chi vi fosse, non abbia potuto schiacciare il pulsante vicino alla timoneria. Purtroppo quando si parla di naufragi che in maniera velocissima fanno colare a picco le navi, la storia ci consegna innumerevoli casi di speronamento, capaci di mettere fuori uso le strumentazioni di bordo della malcapitata in pochissime frazioni di secondo.
Il ritrovamento della scialuppa con quattro naufraghi a bordo – Dopo due giorni dalla scomparsa del Garau, il 19 febbraio del 1987, una motonave, la Pantelleria, via radio, ricevette la comunicazione da una nave rumena, la Tirgu Neant, di aver avvistato una scialuppa con dei naufraghi a bordo. La motonave Pantelleria, appena ricevuto il messaggio, si diresse su luogo indicato e in effetti trovò quattro corpi appartenuti all’equipaggio del “Massimo Garau”. Il recupero effettivo dei marinai fu affidato al traghetto Pietro Novelli, in navigazione distante poche miglia dal luogo del ritrovamento. Tre italiani furono trovati morti, il comandante Paolo Paleino, il direttore di macchina Geo Caselli, il cuoco Girolamo Perez, morti per assideramento e così il quarto marinaio, il ghanese Solomon Quartey Kinarte, il graisseur (l’ingrassatore), spirato immediatamente dopo il recupero. L’unico trovato in vita non ebbe il tempo di spiegare cosa fosse accaduto. Il resto dell’equipaggio tra cui il nostromo Matteo Asaro e altri quattordici marinai africani non furono mai ritrovati. Per molti giorni continuò il mistero della nave scomparsa, dov3e tutti o quasi tutti, improvvisati esperti di disastri marittimi, giornalisti, pescatori, cittadini comuni, avevano elaborato teorie circa l’affondamento, ognuna delle quali, a loro dire, era quella corretta.
Per scoprire dove si trovava il peschereccio affondato bisognerà attendere ancora qualche tempo. Il Garau era a 83 metri di profondità a 37° 24’ 08” Nord e 11° 38’ 47” Est, punto che è distante 5 miglia dal confine sud del banco di Talbot, a quasi 47 miglia da Mazara, a 35 miglia da Pantelleria, e circa 34 miglia da Capo Bon, e molto probabilmente con l’equipaggio che è rimasto intrappolato a bordo, mettendo così fine a tutte quelle voci, tra le quali, anche quella dell’ammutinamento da parte dell’equipaggio africano. Il lavoro di individuazione del relitto fu svolto dal comandante in seconda della Capitaneria di Porto di Mazara del Vallo, Agate, nel cui elaborato del maggio del 1987, quattro mesi dopo il naufragio, perveniva alla conclusione che il natante giaceva sul fondale in una area che in seguito risultò essere quella molto prossima a quella nella quale, nel 1996, fu recuperato il peschereccio. Si scopre la tragedia nella sua interezza e la disperazione di non aver potuto fare nulla per salvare quei poveri marinai.
Nel 1996 il Massimo Garau venne recuperato e trasportato il 16 luglio al porto di Trapani. Lo scafo presenta una grossa rientranza: una bozza tra l’opera viva e l’opera morta del peschereccio lungo l’asse di galleggiamento, segno inequivocabile di una collisione con un gigantesco mezzo navale. Il peschereccio ha un grosso squarcio sulla fiancata destra. Lungo 30 metri, 190 tonnellate di stazza, il Garau era partito dal porto mazarese per una battuta di pesca diretto verso lo stretto di Gibilterra. L’ ultimo contatto radio avvenne la mattina del 16 febbraio. Il motopesca sarebbe quindi affondato per cause traumatiche esterne.
Ma chi giocava alla guerra in quella zona del Mediterraneo? Esatto: la Sesta Flotta US Navy, in cui spiccano le portaerei Kennedy e Nimitz. C’è una foto ufficiale datata 5 febbraio 1987 che ritrae una parte della copiosa squadra navale statunitense. Nel 1987, nel Canale di Sicilia, si sono svolte esercitazioni aeronavali che hanno coinvolto forze NATO e statunitensi. Queste esercitazioni facevano parte di un contesto più ampio di operazioni militari e addestramento nell’area, con l’obiettivo di mantenere la prontezza operativa e la cooperazione tra gli alleati. Le esercitazioni nel Canale di Sicilia, in particolare, miravano a simulare scenari di conflitto e a testare la capacità di risposta delle forze partecipanti in un’area strategicamente importante. La presenza di basi NATO e statunitensi in Italia, come quelle di Sigonella e Napoli, sottolineava ulteriormente l’importanza di questa regione per la difesa dell’Europa e per il mantenimento della stabilità nel Mediterraneo. Le esercitazioni aeronavali del 1987 rientravano in un periodo di alta tensione durante la Guerra Fredda, e la loro pianificazione e svolgimento erano strettamente correlate alle dinamiche geopolitiche dell’epoca. L’obiettivo principale era dimostrare la forza e la determinazione della NATO e degli Stati Uniti di fronte a eventuali minacce provenienti dal blocco orientale, oltre a rafforzare la cooperazione tra i paesi membri e con gli alleati. In sintesi, le esercitazioni aeronavali NATO e USA nel Canale di Sicilia del 1987 rappresentano un esempio di come l’alleanza militare si preparava a fronteggiare le sfide della Guerra Fredda, attraverso attività di addestramento e dimostrazioni di forza in un’area di importanza strategica. Nel 1987, la sesta flotta degli Stati Uniti era operativa nel Mar Mediterraneo. Questa flotta, con base a Gaeta, in Italia, era composta da diverse navi, tra cui portaerei, incrociatori, cacciatorpediniere, fregate e sottomarini, oltre a aerei ed elicotteri imbarcati. La sesta flotta, dal punto di vista operativo, include tutte le unità della US Navy che entrano nel Mediterraneo. Oggi, la presenza della sesta flotta nel Mediterraneo è ancora significativa, anche se la composizione e le dimensioni possono variare nel tempo. Le navi della sesta flotta continuano a svolgere missioni di sorveglianza, addestramento e deterrenza nella regione.
Nel Canale di Sicilia sono perennemente in corso esercitazioni aeronavali che coinvolgono membri della NATO e degli Stati Uniti. Queste esercitazioni, come la “Dynamic Manta”, mirano ad addestrare e affinare le capacità alleate, in particolare quelle relative alla lotta antisommergibile. Le esercitazioni si svolgono al largo delle coste siciliane e vedono la partecipazione di navi, sottomarini e aerei. Tali attività aeronavali nel Canale di Sicilia sono un evento ricorrente, con lo scopo di mantenere elevata la prontezza operativa e la cooperazione tra le forze alleate. La NATO, di cui l’Italia è membro fondatore, utilizza queste occasioni per testare e migliorare le proprie capacità in diversi scenari operativi, tra cui la lotta antisommergibile, la difesa aerea e il controllo del mare. In particolare, la Dynamic Manta è una delle più importanti esercitazioni antisommergibile della NATO. L’esercitazione prevede la partecipazione di sottomarini, navi di superficie, aerei e personale specializzato, che collaborano per simulare e contrastare minacce sottomarine. Oltre alla componente militare, le esercitazioni nel Canale di Sicilia possono avere anche risvolti politici e strategici, poiché il Mediterraneo è un’area di importanza geostrategica per la NATO e per gli Stati Uniti. Le esercitazioni contribuiscono a rafforzare la presenza e l’influenza degli alleati nella regione e a mantenere alta la vigilanza contro potenziali minacce alla sicurezza. Inoltre, la base aeronavale di Sigonella, in Sicilia, gioca un ruolo chiave in queste operazioni, fungendo da hub logistico e operativo per le forze alleate impegnate nel Mediterraneo. Sigonella è una base strategica per la NATO e per gli Stati Uniti, da cui vengono condotte operazioni militari e di sorveglianza in tutta l’area. In sintesi, per Washington le esercitazioni aeronavali nel Canale di Sicilia rappresentano un’importante occasione per addestrare e coordinare le forze NATO e statunitensi, rafforzando la loro capacità di risposta a diverse minacce e mantenendo alta la presenza alleata in un’area strategica come il Mediterraneo.
Riferimenti:
https://catalog.archives.gov/id/6416966
https://www.difesa.it/smd/news-italia/nato-partita-esercitazione-dynamic-manta-2024/47465.html
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