Ieri e oggi oltre 51 milioni di italiani sono attesi alle urne per esprimersi su cinque quesiti referendari. I temi sono concreti, in un Belpaese dove lo sfruttamento dei lavoratori, gli incidenti sul lavoro e i bassissimi salari (rispetto all’Europa) sono una costante, mentre libertà e diritti civili risultano sempre più erosi dall’esecutivo meloniano (decreto “in-sicurezza”):
- reintegro dopo il licenziamento illegittimo;
- tetto massimo dell’indennità dopo un licenziamento illegittimo;
- limiti del contratto a termine;
- responsabilità del committente dell’appalto in caso di infortunio sul lavoro;
- riduzione del requisito di residenza in Italia, da 10 a 5 anni, per ottenere la cittadinanza.
Il meccanismo è quello abrogativo: occorre il 50% + 1 degli aventi diritto perché il voto sia valido. Una soglia che la storia recente ha reso più simbolica che concreta. Maggioranza e opposizioni si contendono la scena a colpi di diserzione disonorevole e appelli al voto.
Si vota fino alle 15 di lunedì. Già nel 2011 si votò in due giorni e fu l’ultima volta in cui un referendum superò il quorum. Oggi, a giudicare dai dati sull’affluenza e dal clima generale, le probabilità che accada di nuovo sono scarse. Il contesto è frammentato, l’interesse tiepido e la partecipazione è tutt’altro che scontata.
Il problema è che ormai nell’Italia in avanzato declino politico e morale, a sovranità e indipendenza azzerata, in ogni caso i risultati del referendum vengono sstematicamente disattesi da qualsiasi governo tricolore. Esempi: bando al nucleare, acqua pubblica e così via.
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