
di Gianni Lannes
La seguente intervista a Luciana Alpi, fu pubblicata sulle pagine online del giornale L’Indro, il 24 agosto 2011. E qui, ora la ripropongo, dopo la censura di Google che l’ha oscurata su Internet, senza una spiegazione.
Nel 2006 tornai in Italia dalla Somalia, dopo aver avviato un’approfondita inchiesta giornalistica sull’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a Mogadiscio (domenica 20 marzo 1994).
Giorgio e Luciana Alpi, i genitori mi cercarono al settimanale L’Espresso, per cui avevo seguito il sequestro di alcuni pescherecci oceanici italiani. Dopo una telefonata, mi invitarono a casa loro, a Roma. E trascorsi con queste due splendide e battagliere persone, un’intera giornata. Mi parlarono di Ilaria raccontandomi la sua vita e l’ultimo viaggio. In quella stessa occasione mi chiesero di indagare a fondo per scoprire la verità. Ne parlai anche con Sandro Curzi, allora direttore del mitico Tg3, per chiedere consigli tecnici. Così è stato: ho mantenuto fede alla promessa. Giorgio è scomparso l’11 luglio 2010, mentre Luciana se ne è andata il 12 giugno 2018.

Luciana ha costantemente ricordato in tutte le dichiarazioni pubbliche, i sette viaggi di Ilaria in Somalia, la sua ultima intervista al sultano di Bosaso e l’ultima volta che l’ha sentita al telefono, “stanca” e con la voglia di tornare. Due ore dopo è stata uccisa con un solo colpo alla nuca: “Un’esecuzione”.

Impossibile dimenticare le sue parole, quelle che disse nel 1996 ad Abu Dhabi Tv, acquisite dalla Commissione parlamentare di inchiesta e comprese negli atti descretati parzialmente dall’Archivio storico della Camera dei Deputati. Già allora Luciana dimostra una lucidità su quanto è accaduto che è mancata agli inquirenti. Per 24 anni Luciana, dignitosamente, ma senza mollare un solo giorno, ha chiesto verità e giustizia sull’assassinio della figlia. Se ne è andata via così, senza ottenerle, con una cerimonia in cui autorità e politici hanno brillato – come sempre – per la loro assenza.
“Io all’assassino di Ilaria direi di dirci chi l’ha pagato per uccidere nostra figlia e il suo collega Miran Hrovatin”, esordisce Luciana. Con una certezza: “Sono stati assassinati per le inchieste che stavano facendo in Somalia sul traffico di armi e di rifiuti tossici”. All’arrivo del corpo in Italia non glielo fecero vedere perché dissero che era “massacrato da colpi di kalashnikov”. Non era vero: “aveva solo la testa fasciata”. “Da quel momento capimmo che c’era qualcosa che non andava, non capivamo le bugie che già ci avevano detto”. Neppure l’ultima carezza alla salma della figlia le è stata concessa. Luciana ha lottato lo stesso, ma è morta senza sapere la verità.
“Non mi interessa sapere chi ha premuto il grilletto. Io voglio sapere chi li ha mandati, chi li ha pagati per uccidere mia figlia e il suo collega e perché sono dovuti morire”. Sono racchiusi in questa frase, 24 anni di dolore e di lotta di Luciana Alpi, madre di Ilaria Alpi assassinata a Mogadiscio assieme al collega Miran Hrovatin. Luciana è morta a 85 anni, senza aver potuto sapere la verità sulla morte della figlia. Una grande madre coraggio che fino all’ultimo giorno si è battuta come una leonessa, ma sempre con misura, compostezza e dignità, anche di fronte a uno Stato inerte e beffardo.
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin vennero assassinati in Somalia, nella capitale Mogadiscio, il 20 marzo 1994, poco dopo essere rientrati da un viaggio nell’estremo nord del Paese, a Bosaso, dove avevano filmato e indagato su una nave Italo-somala, ma con comandante e parte dell’equipaggio italiani, che in quelle acque era stata sequestrata. Una nave da pesca oceanica della compagnia Shifco, dono del nostro ministero degli Esteri alla Somalia, un Paese dilaniato in quegli anni da una sanguinosa e irrisolvibile guerra civile, nonostante l’intervento ONU “Restore Hope” allora in corso a cui partecipava anche l’Italia. La guerra civile, di fatto non ancora finita, è iniziata dopo il crollo, nel gennaio 1991, della lunga e sanguinosa dittatura di un grande amico dell’Italia: Siad Barre.
La Somalia è anche il paese di trafficanti e traffici di ogni tipo e della corruzione, avamposto specializzassimo dell’Italia di Tangentopoli. Ma, in quel 1994, con la guerra civile in atto e l’intervento delle Nazioni Unite, è soprattutto il Paese specializzato in traffici di armi e rifiuti tossici, anche nucleari, da smaltire nei territori controllati dai ras della guerra, disposti ad avvelenare il proprio Paese, in cambio di armi e munizioni necessarie a mantenere e difendere il proprio potere e il proprio clan.
Proprio sulla Shifco era incentrata l’attenzione a Bosaso dei due inviati della Rai. Lo testimoniano uno dei block notes di Ilaria e le domande fatte al sultano di Bosaso nell’ultima intervista. Il sultano era stato chiaro: parlare di queste cose è pericoloso. E infatti, come hanno dimostrato le indagini degli ispettori Onu incaricati di monitorare l’embargo sulle armi imposto alla Somalia, le navi Shifco erano impiegate in traffici internazionali di armi. Traffici che avevano coinvolto Paesi come la Polonia, la Lettonia, gli Stati Uniti d’America, i servizi segreti di diversi Paesi e il trafficante siriano Monser Al Kazar. È lo stesso gruppo di interessi che era già stato coinvolto nei traffici della Cia dello scandalo Iran-Contras che era quasi costato la presidenza a Ronald Regan. Traffici, quelli somali, avvenuti nel 1992 e di nuovo proprio nel marzo del 1994. Traffici oggetto di inchieste giudiziarie e parlamentari in Polonia, Lettonia, Spagna e Svizzera, ma di cui nel nostro Paese non c’è traccia nelle decine di migliaia di pagine di inchieste giudiziarie e parlamentari, sul delitto Alpi-Hrovatin.
Non c’è traccia anche di quello che possiamo chiamare “il giallo della chiave di Ilaria” né nel processo, né nei lavori della commissione parlamentare di inchiesta, e nemmeno nelle inchieste giornalistiche che al massimo hanno preso nota delle videocassette sparite.
Ilaria e Miran arrivano in aereo da Bosaso nella tarda mattinata del 20 marzo. All’aeroporto, controllato esclusivamente da militari americani, non dovrebbe esserci nessuno ad aspettarli perché la scorta dei due giornalisti è stata depistata e spedita all’Ambasciata americana dove normalmente arriva l’elicottero-navetta dall’aeroporto. Ilaria e Miran non lo prendono. Qualcuno, non si sa chi, li preleva, li fa uscire dall’aeroporto senza che venga registrato, come era obbligatorio, il loro passaggio e con una scorta armata li accompagna in albergo, l’Hotel Sahafi dove i due occupano le stanze 202 e 203.
Ilaria e Miran giungono in albergo accompagnati dal misterioso comitato di ricevimento che li ha traghettati dall’aeroporto. Ma con i due giornalisti arrivano in albergo anche i loro bagagli? O chi li ha accompagnati ha trattenuto in tutto o in parte i loro bagagli? Gli inviati cercano subito il corrispondente dell’Ansa, che non c’è: è a Nairobi in Kenya. Perché lo cercano? Poi Ilaria, improvvisamente, nonostante avesse prenotato il satellite per inviare un “servizio esplosivo”, vuole andare al di là della linea verde che divide Mogadiscio tra le fazioni, verso l’Hotel Hamana. Ha tanta fretta da non voler aspettare di avere una scorta armata affidabile. Lì, davanti all’abergo, ad aspettarla c’è solo il commando che la ucciderà. Chi doveva incontrare Ilaria con tanta urgenza? E perché proprio lì?
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin occupavano all’Hotel Sahafi le stanze 202 e 203. Addosso al cadavere di Ilaria è stata ritrovata la chiave della stanza 202. La chiave della stanza 203 non è invece mai stata ritrovata. Con il materiale tecnico all’interno (e il denaro) è impossibile che Miran l’avesse lasciata alla reception dell’Hotel. Ma tutti i testimoni che si sono recati al Sahafi per recuperare le cose di Ilaria e Miran riferiscono di essere entrati nelle camere 203 e 204. Ilaria occupava sul master book della reception la stanza 202, Miran la 203. Eppure, anche dalle immagini girate dalla tv svizzera, che accompagna sul posto la giornalista di Studio Aperto, Gabriella Simoni, e l’inviato di Panorama, Giovanni Porzio, si vede che la camera di Ilaria è la 204 (che fisicamente non può essere collocata prima della 203). La disposizione e la qualità degli oggetti nella camera di Ilaria fa sospettare che si tratti di una messinscena. I bagagli sono tutti disfatti. Le borse sono tutte vuote. I preziosi passaporti buttati su un letto. Tanto che la Simoni, osservando la scena dice: “Ma stava preparando i bagagli?”. L’interno della camera è intonso mentre tutte le cose di Ilaria sono alla rinfusa, ovunque.
C’è poi la questione della telecamera. Hrovatin non sarebbe mai uscito senza. La regola in zona di guerra, dove può sempre accadere qualcosa da riprendere, è non abbandonarla mai. Nessuno ha mai sottolineato che Ilaria Alpi al momento dell’omicidio non aveva con sé nessun oggetto personale, neppure un fazzoletto da naso. Non aveva il passaporto che è stato ritrovato buttato sul letto con quello di Hrovatin. Sopratutto non aveva lo zainetto nero che compare sempre in tutte le fotografie in Somalia.
È assurdo anche soltanto suppore che Ilaria abbia progettato di attraversare la linea verde in zona di guerra come se stesse andando sotto casa a comprare il latte. Stessa cosa per Hrovatin. Anche lui non avrebbe mai e poi mai abbandonato il passaporto (chiedete pure a qualunque corrispondente o inviato di guerra). Praticamente Miran aveva con sé solo il portafoglio.
Perché nessuno ha mai indagato sullo scambio delle stanze? Magari per scoprire che si tratta di un semplice equivoco, o magari per scoprire che i due inviati Rai si recarono proprio dove li aspetta il commando omicida credendo di recuperare il materiale come bagagli e telecamera e quanto necessario (block notes e cassette video) per confezionare il “servizio esplosivo” che avevano annunciato al Tg3 della Rai. Magari il tutto era stato sequestrato per attirarli in un tranello mortale.
Ilaria e Miran vengono assassinati alle 13 circa (ora Italiana). Alle 14.43 l’Ansa da Mogadiscio batte la prima agenzia: “La giornalista del Tg3 Daria Alpi (cit.) e il suo operatore… sono stati uccisi oggi pomeriggio a Mogadiscio nord”. Solo 21 minuti dopo, a Roma sono le 15.04, l’Ansa (di Roma) riporta una nota dello Stato Maggiore della Difesa in cui si sostiene che “Niente di proprietà dei due giornalisti è stato sottratto”. Una certezza opera della sfera di cristallo. Nessun militare interviene sul posto, ma in effetti tutto viene ritrovato nelle due stanze 203 e 204 dell’Hotel Sahafi. Solo che la camera di Ilaria era la 202 e, mentre da Roma si diffonde ufficialmente questa certezza (“nulla è stato sottratto”), nessuno ha fatto un inventario. Anzi, chi si sta prodigando (Porzio e Simoni) per recuperare i materiali di Ilaria e Miran, si trova ancora nell’albergo, nella “presunta camera” di Ilaria. Infine, cosa dire del ruolo ambiguo della dirigenza giornalistica della RAI e anche di alcuni colleghi di Ilaria?
Riepilogando in sintesi. Il 20 marzo 1994 è domenica. A casa Alpi verso le tre del pomeriggio arriva una telefonata dalla redazione del Tg3. A rispondere è Luciana, la mamma di Ilaria. «Ilaria è morta…» le dicono. Incredula e disperata è la sua reazione. Aveva parlato poche ore prima con Ilaria al suo rientro a Mogadiscio da Bosaso. Che cosa poteva essere successo? E come dirlo a Giorgio che, rassicurato dalla telefonata ricevuta da Ilaria, riposava tranquillo?
La notizia riportata dall’ANSA non proviene dalle autorità italiane o dall’UNOSOM, ma da Giancarlo Marocchino, l’imprenditore italiano che si recherà per primo sul luogo dell’agguato e che avrà e continua ad avere un ruolo chiave e ambiguo in questa tragica storia. Da subito si tenta di accreditare la tesi dell’incidentalità: un attentato dei fondamentalisti islamici, una rappresaglia contro i militari italiani, un tentativo di sequestro o un tentativo di rapina finiti male. Ma fu un’esecuzione: è ciò che è venuto confermandosi in tutti questi anni dalle inchieste giornalistiche, dalle commissioni parlamentari e governative che se ne sono occupate, anche dalle sentenze della magistratura che non hanno individuato i responsabili ma il movente sì (es. “…questi scopi sono da individuarsi nella eliminazione e definitiva tacitazione della Alpi e di chi collaborava professionalmente con la giornalista … L’allarme suscitato in chi era coinvolto a qualsiasi titolo nei traffici illeciti ed il nutrito timore per la divulgazione delle notizie apprese dalla Alpi, la conseguente necessità di evitare siffatta divulgazione sono le ulteriori circostanze che hanno segnato irreparabilmente il destino di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin: costituiscono l’antefatto nonché il movente dei delitti per i quali è processo.” (dalla sentenza di condanna all’ergastolo di Hashi Omar Hassan del novembre 2000).
E così le motivazioni con cui il gip dottor Emanuele Cersosimo nel dicembre 2007 respinge la richiesta di archiviazione degli atti del procedimento penale presentata dal pubblico ministero dottor Franco Jonta, della procura di Roma. “……la ricostruzione della vicenda più probabile e ragionevole appare essere quella dell’omicidio su commissione, assassinio posto in essere per impedire che le notizie raccolte dalla Alpi e dal Hrovatin in ordine ai traffici di armi e di rifiuti tossici avvenuti tra l’Italia e la Somalia venissero portate a conoscenza dell’opinione pubblica italiana…..”
Il gip dunque dispone che il pm proceda alla riapertura delle indagini partendo dall’acquisire e analizzare tutto il lavoro della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a partire dalle tre relazioni finali. La relazione di maggioranza, com’è noto, conclude che non si era trattato di un’esecuzione ma di un tentativo di sequestro finito male. Per l’avvocato Taormina nessun mistero su quelle morti, nessuna indagine scottante stavano svolgendo a Bosaso Ilaria e Miran, nessun ipotetico traffico di armi e rifiuti tossici o altro avevano scoperto. Il caso è chiuso. Le due relazioni di minoranza presentate dal centrosinistra contestano questa conclusione e accusano la maggioranza di aver fatto carte false e di aver ignorato documenti e testimonianze che mostravano come si fosse trattato di un “duplice omicidio mirato preordinato e ben organizzato con dispendio di uomini e mezzi”.
Un esempio: la testimonianza del sultano di Bosaso Abdullahi Mussa Bogor che Ilaria e Miran intervistarono pochi giorni prima di essere assassinati è stata completamente ignorata dalla relazione di maggioranza. Il sultano dice che Ilaria sapeva del sequestro della Faarax Omar davanti al porto di Bosaso; che voleva recarsi sulla nave, uno dei pescherecci donati dalla cooperazione italiana alla Somalia, che cercava conferme (ma già sapeva) su traffici di armi e di rifiuti tossici finiti in mare o interrati durante i lavori di costruzione della strada Garoe Bosaso. Termina con queste parole: “…Tutti parlavano dei traffici…del trasporto delle armi, dei rifiuti…chi diceva di aver visto…non si vedeva vivo o spariva o, in un modo o nell’altro, moriva…”. E così mentre le indagini non producevano passi avanti significativi per avere verità e giustizia, “menti raffinatissime” sono state in azione fin dai primi giorni dopo l’uccisione premeditata: omissione di soccorso, sparizione dei block notes e di alcune cassette video, non effettuazione dell’autopsia, violazione dei sigilli dei bagagli, costruzione “persistente” della tesi della casualità…sempre. A proposito: quale è stato il ruolo di Giancarlo Marocchino, assoldato addirittura come consulente dalla commissione paralmentare capeggiata da Carlo Taormina?
L’INTERVISTA CENSURATA!
“Non si può morire a 32 anni con un colpo alla nuca senza che nessuno si chieda perché. Ecco, penso che qualsiasi genitore si possa immedesimare in noi”, ripete Luciana, madre di Ilaria, “la verità deve venir fuori per forza, si deve sapere. La giustizia deve fare il suo corso. E questa indifferenza da parte delle istituzioni e della giustizia ci ha molto feriti”.
La signora Alpi centellina le parole: “Purtroppo devo dire che in noi la speranza è venuta meno, e pochissima è rimasta la fiducia in questa giustizia. Siamo molto grati al Gip, Emanuele Cersosimo, perché ha avuto il coraggio di non archiviare l’inchiesta, e addirittura, di indicare i 26 punti che ancora debbono essere approfonditi dopo tanti anni dalla morte di Ilaria”.
DOCUMENTO IMBARAZZANTE
L’ombra dei nostri servizi deviati: depistaggi, omissioni, sparizioni, inquinamenti di prove, promozioni e trasferimenti; anche omicidi, come quello di Natale De Grazia, l’ufficiale di marina assassinato il 12 dicembre 1995, mentre indagava -per conto del magistrato Francesco Neri- sull’affondamento anomalo di 180 navi dei veleni nei mari italiani. Il capitano De Grazia aveva sequestrato, tra l’altro a casa di Giorgio Comerio, metà maggio del ’95 i progetti dell’Odm per l’inabissamento marino di siluri e droni -imbottiti di scorie radioattive – nonché l’occultamento illecito di rifiuti pericolosi in Somalia. Al «faccendiere Comerio, noto trafficante di armi», come viene definito da numerose informative del Sismi, era stato sequestrato anche il certificato di morte di Ilaria Alpi, in seguito sparito dal faldone 18 negli atti conservati dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Un atto di fine vita che neanche i genitori della giornalista (trucidata assieme al cameramen indipendente Miran Hrovatin con un’esecuzione mafiosa) hanno mai avuto tra le mani. Prima che l’inchiesta sulle navi a perdere fosse archiviata dal gip Adriana Costabile su richiesta del procuratore della Repubblica Alberto Cisterna (attuale vice capo della Procura nazionale antimafia, inquisito recentemente per una presunta collusione con la’ndrangheta), il sostituto procuratore Neri aveva stralciato gli atti giudiziari inerenti il duplice omicidio nonché il traffico di armi e rifiuti – trasmettendoli per competenza alla procura della Repubblica di Roma. La medesima procedura- ovvero il trasferimento al giudice Rosario Priore- era stata adottata in simultanea dai magistrati Pace e Neri, per le risultanze inerenti la strage di Ustica connesse al traffico di materiali nucleari strategici.
SEGRETO DI STATO
Nel 2002 alcune interrogazioni parlamentari -tutt’oggi senza risposta- sfiorano un nodo cruciale, ovvero la testimonianza del generale dei carabinieri Mario Mori, ora sotto processo per la trattativa Stato-mafia, insieme al colonnello Mauro Obinu. L’allora direttore del Sisde, appunto Mori, durante l’interrogatorio in Corte d’Assise d’Appello per l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin,confermava l’esistenza di rapporti del servizio segreto civile nei quali si faceva riferimento all’organizzazione del duplice omicidio da parte di un gruppo di mandanti istituzionali. Al generale Mori il collegio della Corte d’assise chiedeva se intendesse rivelare la fonte delle notizie, ma l’alto ufficiale si rifiutava di rispondere, in forza, disse, dell’articolo 203 del codice di procedura penale, che consente al personale dipendente dei servizi di non rivelare i nomi dei propri informatori. Lo Stato italiano – nei vari Governi di centro destra e sinistra- non ha mai assunto iniziative affinché la ricerca della verità non fosse subordinata alle esigenze dei servizi segreti. Vale a dire ad una comoda foglia di fico dove occultare verità indicibili. Ecco gli atti. La senatrice Daria Bonfietti (interrogazione a risposta orale 3-00488, presentata il 5 giugno 2002), rivolgendosi al presidente del Consiglio dei Ministri osserva: «il generale Mario Mori, capo del Sisde nel corso dell’interrogatorio durante il processo per l’uccisione della giornalista Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin, si è avvalso di prerogative di legge per non rivelare la fonte di alcune informazioni di particolare rilevanza; che le notizie in questione potrebbero avere particolare importanza per delineare finalmente il quadro veritiero della responsabilità, dei complici e dei mandanti che hanno portato alla morte dei giovani cittadini italiani, si chiede di sapere se non si ritenga, considerando prevalente nel caso in questione l’interesse per la verità, di intervenire impartendo la disposizione ai responsabili dei servizi di offrire la più incondizionata, completa e totale collaborazione con la giustizia».
Anche i deputati Valter Bielli e Pietro Folena depositarono un’interrogazione (a risposta scritta numero 4-03128) il 5 giugno 2002: «il direttore del SISDE, generale Mario Mori, ascoltato nei giorni scorsi in qualità di teste, adducendo “motivi di sicurezza” ed appellandosi all’articolo 203 del codice di procedura penale, non ha rivelato il nome dell’informatore dei servizi segreti che, all’epoca, indicò i nomi di colore che, a suo giudizio, potevano essere considerati tra i probabili mandanti del duplice omicidio».
Altri due onorevoli (atto numero 3-01046 datato 10 giugno 2002) -Pietro Ruzzante e Giuseppe Giulietti- chiamano in causa il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per sapere, premesso che: «il procedimento giudiziario per la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, assassinati a Mogadiscio il 20 marzo 1994, ha registrato con la deposizione del direttore del Sisde elementi nuovi, che potrebbero risultare determinanti ai fini dell’accertamento della verità, consistenti nel fatto che “fonti” ritenute attendibili dal servizio di sicurezza sono a conoscenza dell’identità dei mandanti del duplice assassinio; nella stessa deposizione ci si è avvalsi della facoltà di non rivelare l’identità della fonte per motivi di sicurezza; è venuta così a determinarsi una situazione per cui lo Stato attraverso il potere esecutivo conosce i presumibili assassini, ma rinuncia a perseguirli attraverso il potere giudiziario sottraendogliene la possibilità». Secondo i due parlamentari dell’Ulivo «siamo di fronte ad una lesione grave di diritti fondamentali rappresentati in primo luogo dalla necessità di rendere giustizia a chi ha perso la vita per garantire il diritto dei cittadini ad essere informati e realizzare così concretamente il diritto alla libertà d’informazione».
A distanza di nove anni non è giunta alcuna risposta dai Governi alle predette istanze parlamentari, e neanche alle successive, come l’interrogazione a risposta orale numero 3-01331, risalente al 3 settembre 2002 a firma di Ruzzante, Giulietti e Caldarola.
COMMISSIONE INSABBIATRICE
“La Commissione Taormina è risultata vergognosa. I risultati finali sono stati di una volgarità senza limiti, offensivi verso Ilaria e verso tutti i giornalisti che si sono sacrificati per il loro lavoro” denuncia Luciana Alpi. Istituita di fatto nel 2004 termina i lavori nel 2006, secretando per disposizione del Presidente Carlo Taormina tutti gli atti significativi acquisiti per i prossimi 20 anni, grazie anche al silenzio dell’opposizione politica. Un paradosso tutto italiano: un organismo parlamentare nato per fare luce che invece oscura tutto.
Qualche avvisaglia era già emersa nel 2005 in una intervista con Taormina -la registrazione audio del colloquio autorizzata dall’avvocato è inedita- nel suo studio di via Cesi, a Roma. Esattamente un anno prima della scadenza temporale dei lavori parlamentari, il Presidente Taormina aveva puntualizzato: “Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano in vacanza in Somalia. Sono stati uccisi nel corso di una rapina da fondamentalisti islamici”.
Insomma, una tesi preconfezionata, come il teorema dell’agguato occasionale, l’auto clonata per tentare di dimostrare una dinamica balistica a base di spari da fucile mitragliatore e la scandalosa consulenza di Giancarlo Marocchino. Le perizie mediche hanno dimostrato inequivocabilmente che Ilaria è stata colpita alla testa da un unico colpo sparato a bruciapelo da arma corta. L’analisi del dna sui sedili del pickup ha provato che non era il sangue di Ilaria.
INTERESSI INCROCIATI
La mamma di Ilaria non ha più dubbi: “Le resistenze sono enormi, perché si toccano interessi spaventosi. Il primo gesto che abbiamo fatto dopo la morte di Ilaria è stato andare alla Farnesina, al Ministero degli esteri, perché credevamo che fosse interesse nazionale sapere la verità. Abbiamo ricevuto tante promesse ma non si è fatto niente. Accertare la verità sulla morte di Ilaria vorrebbe dire riaprire il fascicolo delle infamie, delle illegalità commesse sulla cooperazione, sul traffico d’armi e di rifiuti tossici”.
Il silenzio è assordante quando si toccano affari di stati e multinazionali del ‘crimine legalizzato’.

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