
FRATELLI D’ITALIA!
di Gianni Lannes
Un agguato in piena regola spacciato ufficialmente per una rapina. Assassinati in Congo il 22 febbraio 2021: l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. Un eccidio che non ha trovato verità e giustizia processuale. E il Governo Meloni che fa? Niente. In particolare, il racket tricolore dei visti Schengen è un tabù affaristico, ma l’Esecutivo di Giorgia addirittura non risponde agli atti parlamentari di sindacato ispettivo, come ad esempio l’interpellanza a firma Rampelli (FdI), numero 2/00249 del 23 ottobre 2023, nonché le interrogazioni a risposta scritta 4/00690 del 19 settembre 2023, 4/01855 del 25 febbraio 2025, 4/00721 del 26 settembre 2023,4/00402 del 3 febbraio 2023, 4/04209 del 3 febbraio 2025.
Quali iniziative l’inquilina pro tempore di Palazzo Chigi intende assumere per contribuire a fare piena luce sull’attentato del 22 febbraio 2021 e sull’esistenza di un sistema diffuso di compravendite dei visti Schengen presso le sedi diplomatiche italiane, ma soprattutto la distrazioni di fondi pubblici milionari per alcuni progetti (truffaldini) del Wfp tra Bukavu e Rutshuru?
Bentornati in Africa con tutto il marcio che parte da Roma e non si deve vedere. Un imprenditore italo congolese, «sponsor» dell’ambasciata italiana nella Repubblica democratica del Congo, ha raccontato di un vero e proprio sistema che vede(va) collaboratori e funzionari dell’ambasciata coinvolti in un racket di visti rilasciati dietro il pagamento di cifre esorbitanti che oscillavano tra i 5 e i 6 mila dollari. Secondo il testimone, «sono anni che sento di brogli per i visti in quella ambasciata, ma nessuno ha mai fatto niente. Perché nessuno ha collegato la morte di Attanasio a ciò che aveva scoperto? Era risaputo che esisteva un business intorno al rilascio di un centinaio di visti illegali al mese. Per non parlare dei soldi del budget per le gare di fornitura all’ambasciata fatti sparire negli anni. C’era chi, pagate le fatture, chiedeva al fornitore una quota, uno sconto che finiva nelle sue tasche. E ci sono stati maneggi anche sui soldi di noi sponsor della Festa della Repubblica del 2 giugno e della Festa della cucina».
In particolare, il nome di un funzionario ricorre più volte in vari esposti e in una relazione dei carabinieri dell’ambasciata di Kinshasa che lo avevano sorpreso mentre lasciava il consolato con una borsa piena di passaporti, ritenendo che «ha sempre preso soldi dalla vendita illegale dei visti. Sono a conoscenza anche di una truffa al capo dei Servizi congolesi: venticinquemila dollari per dei visti promessi ma mai rilasciati. Il funzionario si è volatilizzato, ma i suoi complici in ambasciata hanno coinvolto un italiano molto in vista in Congo che ha risarcito il truffato per fargli ritirare la denuncia».
Sempre secondo le gravi accuse, il funzionario «Dopo la morte di Attanasio ha ricevuto a Goma una busta piena di soldi davanti ad altre persone. E sempre lui ha preso il denaro che era in possesso di Attanasio quando è stato ucciso, denunciandone lo smarrimento»; come ricostruisce il testimone, Attanasio poco prima di partire per la missione, durante la quale è stato ucciso, avrebbe promesso di indagare a fondo perché «non avrebbe ammesso illeciti, ma voleva acquisire altre informazioni. Era un diplomatico intransigente e aveva affrontato anche il funzionario al centro dei sospetti. Ne aveva parlato con persone vicine dicendo: quello gioca troppo con i visti».
A confermare le troppe anomalie anche la moglie dell’ambasciatore, che entrando nella posta elettronica istituzionale del marito aveva notato che erano state cancellate le mail dell’intero 2020, fino a pochi giorni prima dell’agguato; e ancora, la scorta di Attanasio era stata inspiegabilmente dimezzata, con un secondo uomo che avrebbe dovuto vigilare sulla sicurezza assente, come anche le numerose incongruenze sull’intera organizzazione del viaggio dell’ambasciatore.
Inoltre, si fa riferimento ad una segnalazione alla Procura di Roma anche dell’attuale ambasciatore in Congo, Petrangeli e, in particolare, ad «alcuni messaggi arrivati sul cellulare dello stesso diplomatico con i quali, chi scriveva affermava di essere disposto a pagare qualsiasi cifra per ottenere un visto. Un chiaro tentativo di corruzione», in un ambiente dove «a detta dei locali in Congo, il nostro Consolato era considerato più malleabile e vulnerabile alle mazzette. Vari testimoni sostengono che i comportamenti gravi di alcuni funzionari italiani erano ben noti a tutti sia nella capitale congolese che a Goma, capoluogo della regione del Nord Kivu. Le voci erano arrivate anche all’ambasciatore Attanasio che si era messo a verificare di persona l’attendibilità delle segnalazioni […]. Proprio per questo, qualche giorno prima della missione nel Kivu, […] il diplomatico […] aveva discusso con uno dei funzionari chiacchierati e che era stato già avvisato in passato. In quella occasione lo avrebbe ammonito di non giocare con i visti».
A destare sospetto, a seguito di numerose denunce dell’onorevole Andrea Di Giuseppe, anche l’ambasciata del Bangladesh, accomunata all’ambasciata del Congo da un comune denominatore: chi si vedeva respinta la richiesta di ingresso nell’area Schengen poteva recarsi all’ambasciata italiana per ottenere, dietro compenso, quanto richiesto.
A tutt’oggi nessuna iniziativa del Governo italiano (targato Meloni) è stata intrapresa per rimuovere gli ostacoli all’accertamento della verità. Perché?
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